Margaret Atwood – La donna da mangiare

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La donna da mangiare
Margaret Atwood

La donna da mangiare

Margaret Atwood fa parte della mia rosa di autori preferiti.
Innamoratami di lei grazie a La donna che rubava i mariti, mi sono impossessata di tutti i suoi romanzi, e piano piano li sto leggendo.
In questi giorni è toccato a questo.

Trama in breve: Marian è una donna che lavora presso “Indagini di mercato Seymour”, ha un fidanzato di nome Peter e vive con un’amica femminista decisamente particolare.
Durante un’indagine sulla birra condotta per lavoro Marian conosce Duncan, un ventiseienne dall’aspetto di un ragazzino che subito la ammalia per la sua aria da bimbo indifeso e che poi ritroveremo nel corso di tutto il romanzo.
I problemi di Marian iniziano nel momento in cui Peter le propone di sposarla, facendo crollare le sue certezze e spingendola a farsi domande su se stessa e su ciò che vuole essere.
E’ in questo periodo che Marian, senza nemmeno sapere bene perché, smette di mangiare, e l’unico modo per riuscire a tornare “normale” è quello di capire che cosa vuole dalla propria vita.

Inizio dicendo che la traduzione fa accapponare la pelle.
Se avessi letto un altro “egli” o “essa” giuro che avrei dato fuoco al libro. Per fortuna è terminato prima che la mia soglia di sopportazione venisse brutalmente infranta. Mi rendo conto che questo è un problema che non posso attribuire al romanzo in sé, ma non avendo a disposizione la versione originale mi trovo costretta a farci i conti.
Ignorando il problema dell’esubero di pronomi, mi sono addentrata nella lettura.
Il libro è diviso in tre parti; la prima è, detta banalmente, noiosa. E’ lenta, non succede nulla e non mi ha colpita particolarmente se non per la pateticità della protagonista e l’assoluto odio che ho sviluppato per tutti gli altri personaggi.
La seconda parte l’ho trovata migliore, sul serio, e soprattutto ho trovato che il personaggio di Duncan, su cui mi soffermerò più avanti, abbia alzato il livello della storia.
La terza parte, corrispondente, se vogliamo, a un epilogo, dà senso al libro in sé ed è stata tutto sommato piacevole.
Visto che la trama non ha grandi avvenimenti (cosa che non è assolutamente negativa, per me), passo ai personaggi che sono il punto più importante.
Non saprei fare una classifica dei più odiosi.
Duncan escluso, li ho odiati tutti dal primo all’ultimo. Forse quella che ho digerito meno è stata Clara, amica di Marian, madre di tre figli e donna sciatta e inconcludente.
Questa avversione per i personaggi mi deriva probabilmente da una mentalità molto diversa da quella che ognuno di loro ostenta: dalle loro bocche esce l’idea di un mondo in cui la donna è chiusa in casa a fare figli, e l’uomo esce a lavorare.
L’ho trovato pesante, in quanto è praticamente il tema di fondo del romanzo, e anche abbastanza disturbante.
Duncan è un’eccezione: si potrebbe definire un anticonformista, o forse semplicemente uno che fa quello che gli va di fare perché gli va di farlo. Si ritiene bisognoso di cure, definisce i suoi due coinquilini, studenti come lui “genitori” e si dimostra più simile a un bambino/adolescente che a un adulto, anche se è davvero difficile dare un’interpretazione di questo personaggio che è l’unico che ho amato.
Anche la protagonista, Marian, è piuttosto insopportabile, almeno per la prima metà del libro. E’ scialba, non ha carattere, si fa maneggiare come un burattino, almeno fino a quando inizia a mostrare segni di squilibrio e a porsi più domande, allora la questione cambia e lei diventa un personaggio molto più apprezzabile.

In conclusione, non mi sento di consigliare questo romanzo.
Lo stile della Atwood ha senza dubbio fascino, ma per me questo libro è stato pesante e inconcludente.

Geraldine Brooks – L’isola dei due mondi

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L’isola dei due mondi
Geraldine Brooks

L'isola dei due mondi

Questa volta mi riesce davvero difficile dare un’opinione sul romanzo.
Ho lasciato passare un paio di giorni per scrivere la recensione appunto per vedere se riuscivo a farmene un’idea più chiara; non ci sono riuscita. Ebbene, cominciamo.

Trama in breve: Bethia è figlia di un pastore impegnato in una missione di evangelizzazione dei Nativi d’America.
Siamo nel 1660 circa, in Nord America. Bethia e la sua famiglia sono inglesi, e si trovano a dover convivere con i wampanoag, tribù di indigeni di cui fa parte Caleb Cheeshahteaumauk.
La storia che leggiamo è la sua, vista tramite gli occhi di Bethia, che ci racconta come Caleb sia stato il primo indigeno a laurearsi ad Harvard, dopo essersi allontanato dalla sua tribù e dai suoi costumi per abbracciare il cristianesimo.

Dunque, partiamo dal fatto che questo romanzo è narrato in prima persona attraverso gli occhi di Bethia.
Questo ci catapulta in pagine dense di pensieri, di timore di Dio, di sensi di colpa e di riflessioni che però non sono riusciti a farmi immedesimare nel personaggio. Forse Bethia è troppo distante da una donna del ventunesimo secolo per poter essere un personaggio in cui immedesimarsi, ma questo senza dubbio non ha contribuito ad appassionarmi al libro.
Di Bethia c’è da dire che è una ragazza intelligente, determinata. Nonostante i precetti che le sono stati insegnati, si pone delle domande e mette in dubbio quello che sa, ma arriva a pentirsene, creando situazioni di forte contrasto tra quello che vuole e quello che deve fare.
E’ un romanzo di contrasti: non solo quello interiore di Bethia, ma anche quello con Caleb, rappresentante di una cultura forse troppo diversa. Ho apprezzato i discorsi dei due riguardo alla religione: Bethia, fervida credente, tenta di convincere Caleb della bontà di un Dio che lui non capisce. Caleb pone domande semplicissime a cui Bethia non sa rispondere, semplicemente perché la religione non le dà le risposte.
Il contrasto tra il cristianesimo e il paganesimo è molto forte nella prima metà del libro, si attenua con il cambiamento di Caleb e torna poi, alla fine, in veste rivisitata, in modo devo dire piacevole e molto umano.
Il punto dolente di questo romanzo per quanto mi riguarda è la mancanza di coinvolgimento. E’ scritto bene, presenta splendide descrizioni, ci dà uno spaccato della vita quotidiana dei coloni del Seicento che senza dubbio contribuisce a creare un’atmosfera particolare, ma niente di più.
Anche i momenti che sarebbero dovuti essere più ricchi di pathos non mi hanno lasciato nulla. Insomma, io qui ho trovato una mancanza di sentimento. Nella parte finale del romanzo mi sarebbe piaciuto leggere di più su alcuni passaggi che per me erano importanti, ma che per l’autrice evidentemente non meritavano attenzione.
In alcuni punti ho trovato la narrazione un po’ pesante, troppo incentrata sui pensieri di Bethia che però non sono stati capaci di coinvolgermi, come se a parlare fosse un robot.

In conclusione, non è un brutto romanzo, tutt’altro, però lo consiglio solo parzialmente.
Se cercate qualcosa che possa coinvolgervi, non credo che questa sia la lettura giusta per voi.

Jamie Ford – Il gusto proibito dello zenzero

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Il gusto proibito dello zenzero
Jamie Ford

Recensione

Lo confesso: l’ho comprato perché sono stata conquistata dagli occhioni della bimba in copertina.
Non me ne sono pentita per nulla; l’ho trovato un libro davvero stupendo.

Trama in breve: Henry è cinese nato in America, Keiko è giapponese, anche lei nata in America.
Siamo negli anni ’40, anni di forte discriminazione nei confronti dei giapponesi: la guerra mondiale è in atto e i giapponesi sono il nemico. Nonostante questo, Henry e Keiko fanno amicizia e si innamorano. Ci penseranno poi i programmi anti-giapponese a separarli, ma Henry e Keiko non si dimenticheranno mai.

E’ un libro commovente come pochi tra quelli che ho letto.
Confesso: pur essendo una lettrice accanita, mi capita molto di rado di commuovermi. In questo caso, confesso che una profonda malinconia non mi ha mai abbandonata, durante la lettura.
Lettura che, tra l’altro, è durata appena un paio di giorni. Eh sì, perché una volta iniziato non riuscivo più a fermarmi: avevo bisogno di seguire ancora Henry, il nostro protagonista.
Ho trovato personaggi ben costruiti, situazioni quotidiane che si intrecciano che uno dei capitoli bui della storia americana recente, e tanto, tanto sentimento.
Ammetto che di tanto in tanto ho trovato Henry un po’ troppo maturo. Nella maggior parte della narrazione ha dodici anni: premettendo che sì, è vero che la sua situazione familiare lo porta a crescere in fretta, in alcuni passaggi fa ragionamenti che ho trovato complessi per un ragazzo di quell’età, anche se senza dubbio si vede l’ingenuità, la spontaneità di un dodicenne che si trova invischiato in fatti che non capisce, e contro cui prova a combattere.
Ecco, questo è il punto di forza di Henry: lui ci prova, ci prova sempre, per quarant’anni. Anche se ha contro tutti, anche se è difficile, se non impossibile, lui cerca la sua Keiko per quarant’anni.
Come va a finire? Lascio a voi il piacere di scoprirlo.

In conclusione, consiglio questo libro con tutto il cuore: se cercate una storia dolce-amara, che vi faccia stare incollati alle pagine e che vi faccia commuovere ed emozionare, questo è il libro che fa per voi.