Eiji Yoshikawa – Musashi

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Musashi
Eiji Yoshikawa

Musashi

Dal momento che sono appassionata di narrativa orientale e in particolare giapponese, non potevo non essere attratta da questo romanzo, così quando l’ho visto l’ho comprato all’istante.

Trama in breve: Siamo agli inizi del Seicento, il giovanissimo Miyamoto Musashi sogna di diventare samurai. Diventa una vera e propria forza della natura, diventa insuperabile nell’arte della spada, ma il suo cuore è sensibile anche all’amore e a sentimenti di profonda umanità.

Inizio con il dire che questo libro è composto di 848 pagine, che non sono poche.Non ho problemi a leggere romanzi chilometrici ma no, non ce l’ho fatta. Mi sono fermata che mi mancavano appena cinquanta pagine. Probabilmente è stato un problema mio, che in questo periodo non ho voglia di leggere, comunque non sono proprio riuscita a proseguire.
Ma andiamo con ordine.
Parto dicendo che l’inizio non è dei più appassionanti. Diciamo che mi ci sono volute un centinaio di pagine per entrare nel ritmo della storia, anche se ammetto che ci sono numerosi personaggi interessanti che compaiono fin da subito (in particolare ho apprezzato il monaco Takuan) e che mi hanno invogliata a continuare.
I personaggi sono davvero tanti, ma i più importanti ricorrono in tutta la vicenda e quindi, alla fine, sono riuscita ad apprezzarli e a riconoscerli nonostante la loro quantità e i loro non sempre facilissimi nomi.
Una nota dolente del romanzo per me è proprio il personaggio di Musashi.
L’ho trovato davvero, davvero insopportabile. Inizia come poco di buono e finisce modificando radicalmente il proprio modo di fare, spinto dal desiderio di perfezionarsi, e fin qui ci sta. Tuttavia, Musashi diventa letteralmente invincibile. Ribadisco, mi mancano le ultime cinquanta pagine quindi per quanto mi riguarda potrebbe anche essere morto e io non lo scoprirò mai, ma fino alla fine del romanzo Musashi resta imbattuto. E soprattutto, mai ferito.
Ora, che lui sia fortissimo ci sta, va bene. Ma che la ferita più grave che si procura sia un livido francamente mi è sembrato assurdo.
Senza dubbio questo è quello che mi ha dato più fastidio; per il resto, ho adorato questo libro.
E’ una storia d’avventura, ma nonostante questo è descritta con eleganza e con una grande cura per i dettagli, cosa che personalmente ho apprezzato tantissimo. Ho adorato le descrizioni, l’attenzione per i paesaggi e le atmosfere.
Mi è sembrato davvero di essere stata catapultata in un altro mondo, e senza dubbio per me è stato questo il punto di forza del romanzo.
Essendo lunghissimo, è davvero difficile per me trovare tutti i punti che mi sono piaciuti e tutti quelli che non mi sono piaciuti, diciamo che in generale mi è piaciuto davvero molto, nonostante i personaggi a tratti poco credibili o comunque spinti all’estremo.
Anche se non l’ho concluso, dunque, posso dire di aver sviluppato un giudizio assolutamente positivo di questo romanzo.

In conclusione, lo consiglio, anche se è una lettura che tiene abbastanza impegnati, se non per la storia quanto meno per la lunghezza e il gran numero di informazioni che riceviamo in queste quasi 900 pagine.

 

Geraldine Brooks – L’isola dei due mondi

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L’isola dei due mondi
Geraldine Brooks

L'isola dei due mondi

Questa volta mi riesce davvero difficile dare un’opinione sul romanzo.
Ho lasciato passare un paio di giorni per scrivere la recensione appunto per vedere se riuscivo a farmene un’idea più chiara; non ci sono riuscita. Ebbene, cominciamo.

Trama in breve: Bethia è figlia di un pastore impegnato in una missione di evangelizzazione dei Nativi d’America.
Siamo nel 1660 circa, in Nord America. Bethia e la sua famiglia sono inglesi, e si trovano a dover convivere con i wampanoag, tribù di indigeni di cui fa parte Caleb Cheeshahteaumauk.
La storia che leggiamo è la sua, vista tramite gli occhi di Bethia, che ci racconta come Caleb sia stato il primo indigeno a laurearsi ad Harvard, dopo essersi allontanato dalla sua tribù e dai suoi costumi per abbracciare il cristianesimo.

Dunque, partiamo dal fatto che questo romanzo è narrato in prima persona attraverso gli occhi di Bethia.
Questo ci catapulta in pagine dense di pensieri, di timore di Dio, di sensi di colpa e di riflessioni che però non sono riusciti a farmi immedesimare nel personaggio. Forse Bethia è troppo distante da una donna del ventunesimo secolo per poter essere un personaggio in cui immedesimarsi, ma questo senza dubbio non ha contribuito ad appassionarmi al libro.
Di Bethia c’è da dire che è una ragazza intelligente, determinata. Nonostante i precetti che le sono stati insegnati, si pone delle domande e mette in dubbio quello che sa, ma arriva a pentirsene, creando situazioni di forte contrasto tra quello che vuole e quello che deve fare.
E’ un romanzo di contrasti: non solo quello interiore di Bethia, ma anche quello con Caleb, rappresentante di una cultura forse troppo diversa. Ho apprezzato i discorsi dei due riguardo alla religione: Bethia, fervida credente, tenta di convincere Caleb della bontà di un Dio che lui non capisce. Caleb pone domande semplicissime a cui Bethia non sa rispondere, semplicemente perché la religione non le dà le risposte.
Il contrasto tra il cristianesimo e il paganesimo è molto forte nella prima metà del libro, si attenua con il cambiamento di Caleb e torna poi, alla fine, in veste rivisitata, in modo devo dire piacevole e molto umano.
Il punto dolente di questo romanzo per quanto mi riguarda è la mancanza di coinvolgimento. E’ scritto bene, presenta splendide descrizioni, ci dà uno spaccato della vita quotidiana dei coloni del Seicento che senza dubbio contribuisce a creare un’atmosfera particolare, ma niente di più.
Anche i momenti che sarebbero dovuti essere più ricchi di pathos non mi hanno lasciato nulla. Insomma, io qui ho trovato una mancanza di sentimento. Nella parte finale del romanzo mi sarebbe piaciuto leggere di più su alcuni passaggi che per me erano importanti, ma che per l’autrice evidentemente non meritavano attenzione.
In alcuni punti ho trovato la narrazione un po’ pesante, troppo incentrata sui pensieri di Bethia che però non sono stati capaci di coinvolgermi, come se a parlare fosse un robot.

In conclusione, non è un brutto romanzo, tutt’altro, però lo consiglio solo parzialmente.
Se cercate qualcosa che possa coinvolgervi, non credo che questa sia la lettura giusta per voi.